Quando attuare la disciplina nella Chiesa? E come affrontare il peccato?

 

La maggior parte della disciplina in una chiesa dovrebbe avvenire nelle normali relazioni dal lunedì al sabato. Questo non significa che in una chiesa le persone vadano in giro correggendosi a vicenda di continuo. Sarebbe terribile. Significa semplicemente che desideriamo una chiesa caratterizzata da persone affamate di devozione a Dio dove in genere i membri richiedono la correzione, senza nascondersi, perché vogliono crescere.

“Ehi Roberto, cosa ne pensi di come ho guidato quell’incontro? C’è qualcosa che avrei potuto fare meglio?”

“Simone, voglio che tu sappia che puoi sempre darmi consigli relativamente al mio matrimonio e di come pensi che io debba amare mia moglie. Il mio orgoglio non vorrebbe davvero chiedertelo, ma… hai osservazioni da farmi sul ruolo di genitore?”

Gli scrittori a volte fanno una distinzione tra disciplina formativa e disciplina correttiva. Per disciplina formativa s’intende l’insegnamento. Per disciplina correttiva si intende la correzione degli errori. Ma ovviamente le due cose vanno a braccetto. È difficile avere l’una senza l’altra. E nella vita della chiesa, la disciplina intesa come formazione e correzione dovrebbe essere una caratteristica non solo della domenica, ma anche degli altri giorni, dal lunedì al sabato. Si potrebbe dire che la disciplina è solo un altro modo di descrivere il processo del discepolato. Quando dovrebbero aver luogo il discepolato e la disciplina? Tutta la settimana. Ecco quando.

 

La domanda più complicata

Questa è la domanda più complicata: quand’è che si porta il processo di disciplina al livello successivo: dal primo livello al secondo o al terzo oppure dal secondo livello al terzo estendendolo a tutta la chiesa?

Qui non c’è una formula facile. Ogni caso va giudicato singolarmente. Ad esempio, ci sono state situazioni in cui i nostri anziani hanno visto la necessità di lavorare a lungo — e ci sono state altre situazioni in cui abbiamo lavorato per mesi o addirittura anni, senza mai decidere di portare il problema in questione al livello successivo.

Questo, il più delle volte, è il caso in cui le persone coinvolte collaborano per combattere il proprio peccato. Ricordo il nostro consiglio anziani che ha lavorato con una coppia sposata per quattro o cinque anni, un periodo così lungo che gli anziani che iniziarono il processo di consulenza alla coppia uscirono dal consiglio perché il loro mandato era scaduto. Poi i nuovi anziani che entrarono nel consiglio dovettero essere informati sulla situazione e questa transizione si verificò un paio di volte durante il periodo problematico della coppia. Nessuno di loro fu mai scomunicato pubblicamente.

 

 Una domanda leggermente più semplice

Qui abbiamo una domanda leggermente più semplice a cui rispondere, almeno in teoria: quali sono i peccati che giustificano un’esposizione pubblica e la scomunica? Per poter rispondere a questa domanda la generazione di scrittori a noi precedente, elencherebbe dei peccati come quelli in 1 Corinzi 5 e 6. “Ora, vi sto scrivendo non per associarmi a qualcuno che afferma di essere un credente, sessualmente immorale o avaro, un idolatra o uno che è offensivo verbalmente, un ubriaco o un truffatore” (1 Co. 5:11). Ma se ci limitiamo soltanto a quegli elenchi, significa che dovremmo scomunicare l’avaro e non l’amministratore disonesto? Il truffatore, ma non l’omicida o il pedofilo? Malversatori, omicidi, pedofili non sono mai citati in questo tipo di liste.

Sinceramente, non penso che dovremmo ritenere esaustivi questi elenchi in cui Paolo sta descrivendo il tipo di peccati con cui dovremmo supporre di descrivere le persone che rimangono non credenti e impenitenti (vedi 1 Co 6:9-10).

Penso quindi che la breve risposta alla domanda suddetta sia: soltanto quei peccati che sono esteriori, significativi e recidivi giustificano un’esposizione pubblica e la scomunica. E un peccato deve avere tutte e tre le cose, non soltanto una o due di queste.

 

  1. Un peccato deve essere esteriore.

Innanzitutto, un peccato deve essere quel tipo di cosa che si può vedere con gli occhi o sentire con le orecchie. Non può essere qualcosa che sospetti possa trovarsi tranquillamente nel cuore di una persona. Paolo mette nell’elenco l’avaro, ma non si accusa nessuno di essere avaro e poi lo si scomunica se non c’è evidenza esteriore dell’avarizia. Il sistema giudiziario secolare è cauto nel pesare le prove. Le chiese dovrebbero essere meno attente? Gesù non è interessato al linciaggio. Ma notate che ho detto “esteriore,” non “pubblico.” Per esempio, la fornicazione non è pubblica. È privata. Ecco perché ho detto “esteriore.”

 

  1. Un peccato deve essere significativo.

Ansia, paura e stress potrebbero essere peccato. Ma non credo che possano giustificare l’esposizione pubblica e la scomunica.

Se, ad esempio, scopro che un fratello ingigantisce una storia eppure nega di farlo, potrebbe peccare volontariamente, ma non renderò pubblico il suo peccato. Pietro ci dice “l’amore copre una moltitudine di peccati” (1 Pt 4:8). Sicuramente una delle caratteristiche principali di una chiesa sana è la volontà di passare sopra a molti, se non la maggior parte, dei peccati che sperimentiamo da parte dei nostri fratelli.

Quindi cosa costituisce un peccato significativo? È un peccato che rende difficile il continuare a credere che qualcuno o qualcuna con lo Spirito di Dio, che quindi è cristiano, continui a peccare senza pentirsene. Quando si diventa membri di chiesa, la chiesa riceve ed afferma la professione di fede di una persona. Il peccato significativo è quel tipo di peccato che rende difficile, se non impossibile alla chiesa la credibilità di una professione di fede. Se posso, con la coscienza pulita, continuare ad affermare la fede di qualcuno che nega di aver esagerato a raccontare una storia, non posso però farlo con la coscienza pulita per qualcuno che persiste nell’immoralità sessuale, nell’abuso verbale, nell’ubriachezza e così via.

I criteri per stabilire quando un peccato è significativo sono in un certo senso soggettivi? Si, ed è per questo che lo stesso peccato in una situazione può giustificare la scomunica mentre in un’altra situazione potrebbe non farlo, per una serie di fattori circostanziali. Quanto sarebbe facile per la Scrittura fornire una giurisprudenza precisa per affrontare qualsiasi situazione immaginabile. Ma il Signore vuole che noi facciamo appello a Lui per avere saggezza e che camminiamo nella fede. Tra l’altro questo è un motivo in più per cui le chiese dovrebbero aspirare a suscitare quanti più anziani possibile, affinché non solo uno o due uomini debbano ponderare questioni di tale calibro prima di esporle all’intera chiesa.

  1. Un peccato deve essere recidivo.

Una volta che la persona è stata messa davanti al suo peccato, sia che l’ammetta o no, sia che lo abbandoni o meno, mostra un rifiuto di staccarsene e quindi ci ricade periodicamente come un pazzo nella sua follia.

 

Ma come dobbiamo confrontarci con il peccato?

Ci furono volte in cui Gesù ribaltava i tavoli con rabbia. Ci furono volte in cui gli apostoli parlarono pubblicamente con una lingua affilata verso individui particolari (pensate a Pietro e Simone il mago in Atti 8, o Paolo in 1 Corinzi 5). E potrebbero esserci rare occasioni in cui la correzione di un fratello arriverà a toccare 9 o 10 su una scala di gravità.

Ma nella stragrande maggioranza delle circostanze, le modalità del confronto o delle domande dovrebbero avere queste caratteristiche:

  • Discreto: la progressione di Matteo 18 suggerisce che dovremmo mantenere la questione ad una ristretta cerchia.
  • Gentile: Paolo ci dice di rialzare le persone “con uno spirito di mansuetudine” (Gal. 6:1).
  • Vigile: in questo stesso versetto, Paolo aggiunge, “bada bene a te stesso, che anche tu non sia tentato.” Giuda è d’accordo: “e di altri abbiate pietà mista a timore, odiando perfino la veste contaminata dalla carne” (v. 23). Il peccato è subdolo. È facile farsi prendere, anche quando stai cercando di aiutare gli altri.
  • Pietoso: Giuda lo dice 2 volte: “abbiate pietà” e “abbiate pietà” (vv. 22, 23). Il proprio tono dovrebbe essere pietoso e comprensivo, non ipocrita, come se non fossimo mai soggetti all’errore.
  • Imparziale: Non dovremmo avere pregiudizi, ma lavorare per sentire le due campane (vedi 1 Tim. 5:21).
  • Chiaro: Lo scontro passivo aggressivo o sarcastico è certamente scorretto perché serve solo a proteggere se stessi. Si dovrebbe invece essere disposti a rendersi sensibili essendo molto chiari, specialmente se si chiede alla persona in peccato di aprirsi confessando. A volte, l’attenuare i toni può servire a ottenere dolcezza e contribuire a far esporre la persona, ma questo non può compromettere il fine della chiarezza. Più le cerchia si allargano, più bisogna esser chiari. Dopotutto, un po’ di lievito fa lievitare tutta la pasta (1 Co 5:6). Le persone ne devono essere consapevoli.
  • Decisivo: In relazione a ciò, quando ci si trova nella fase finale della disciplina – scomunica o esclusione – tutta la chiesa dovrà agire in modo decisivo: “Purificatevi del vecchio lievito per essere una nuova pasta” (1 Co. 5:7); “ammonisci l’uomo settario” (Tito 3:10). Deve essere chiaro che l’individuo non è più un membro di chiesa o benvenuto alla Mensa del Signore.

La saggezza è sempre necessaria quando si intraprende una correzione perché non c’è una situazione che sia uguale identica ad una precedente. È facile dire: “Beh con quella persona ce l’avevamo fatta”. Benché ci sia molto da imparare dalle situazioni precedenti, dobbiamo infine fare affidamento sui principi della Parola di Dio, la guida del Suo Spirito e un attento esame dei particolari e delle idiosincrasie di ogni situazione.

 

 

Questo articolo è un estratto tratto dal libro di Jonathan Leeman Understanding Church Discipline (B&H, 2016).

 

 

Libro consigliato:

La disciplina di chiesa

 

Tematiche: Chiesa, Crescita spirituale, Disciplina di chiesa, Struttura e organizzazione di chiesa

Jonathan Leeman

Jonathan Leeman 

 

Jonathan Leeman è il capo redattore del ministero di 9Marks. Ha conseguito un master in scienze politiche. Dopo la chiamata al ministero, Jonathan ha ottenuto un Master of Divinity e un dottorato in teologia, lavorando come pastore ad interim.

Oggi è il curatore dei libri di 9Marks e del 9Marks Journal, ed è co-conduttore di Pastors Talk.  Ha scritto per diverse pubblicazioni ed è autore o curatore di numerosi libri.

Jonathan vive con sua moglie e le quattro figlie vicino a Washington, DC e serve come anziano presso la Chiesa Battista Cheverly. Insegna come docente a contratto presso il Midwestern Baptist Theological Seminary, il Southern Baptist Theological Seminary e il Reformed Theological Seminary.

E’ autore di numerosi libri, tra cui “Essere un membro di Chiesa (Coram Deo, 2020), “La disciplina di Chiesa(Coram Deo, 2020) e Riscoprire la Chiesa (Coram Deo, 2021).

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