Le donne dovrebbero predicare nelle nostre chiese?

 

 

Questo non è un articolo atto a sostenere il complementarismo invece dell’egualitarismo. Per quanto sia un dibattito importante, questo articolo è rivolto a quanti si identificano come complementari e si chiedono se la loro teologia possa (o dovrebbe) consentire alle donne di predicare.

Ed ecco la questione che voglio affrontare:

Esiste una motivazione biblica, considerate le convinzioni basilari complementariste, a sostegno della predicazione delle donne durante il culto domenicale?

La maggior parte delle persone che leggeranno questo articolo capirà l’immediata rilevanza di questa domanda. Non intendo qui fare un ripasso delle situazioni in cui è stato sollevato questo quesito né vagliare le ultime risposte in rete. Mi confronterò piuttosto con quella che ritengo essere, da una prospettiva complementarista, la miglior argomentazione volta a permettere alle donne di predicare. Innanzitutto esporrò nel modo più corretto possibile l’argomentazione a favore della predicazione femminile. Poi spiegherò perché tale argomentazione (per quanto in prima battuta possa sembrare plausibile) non possa essere convincente.

 

Ascoltare la voce di lei

La migliore argomentazione che ho visto a favore della predicazione femminile è quella del ministro e apologeta australiano John Dickson nel suo libro Hearing Her Voice: A Biblical Invitation for Women to Preach (Zondervan, 2014) [Traduzione letterale del titolo: “Ascoltando la voce di lei: un invito biblico per le donne alla predicazione”. N.d.R.]. Grazie alla presenza di trafiletti da parte di J. I. Packer, Craig Blomberg, Graham Cole e Chris Wright a sostegno di quanto scritto, si può capire perché questo libro sia stato influente. Anche se uno non avesse familiarità con il testo in questione, sono abbastanza certo che delle persone intorno a lui ne siano state influenzate. Oltre all’elogio di rispettati studiosi evangelici, il libro di Dickson è un esempio di chiarezza e accessibilità. In poco più di 100 pagine, Dickson presenta, come uno che ammette “di essere un complementare di larghe vedute”, un’argomentazione accurata e semplice per legittimare la predicazione delle donne durante il servizio domenicale.

Non sorprende che Dickson si concentri su 1 Timoteo 2:12. Mentre l’applicazione sembra ovvia a molti di noi, ovvero che alle donne non è permesso insegnare o esercitare autorità, e quindi nemmeno predicare sermoni, Dickson sostiene che abbiamo frainteso ciò che Paolo intendeva per insegnamento. “In parole povere”, scrive Dickson, “nel Nuovo Testamento sono menzionati numerosi ministeri riguardanti il parlare in pubblico (insegnare, esortare, evangelizzare, profetizzare, leggere e così via), e Paolo ne limita solo uno a uomini qualificati: l’‘insegnare’”.

 

Al centro dell’argomentazione di Dickson c’è un semplice sillogismo che possiamo riassumere così:

  1. L’unica cosa che le donne non possono fare durante il culto è insegnare.
  2. Per Paolo l’insegnamento era un’attività tecnica e attentamente studiata che non coincide con il nostro sermone moderno.
  3. Pertanto le donne possono usare la parola in quasi ogni modo durante un servizio di chiesa, predicazione inclusa.

Ma allora, se predicare un sermone non conta come insegnare, cosa intendeva Paolo per insegnare? Dickson spiega:

1 Timoteo 2:12 non si riferisce a un generico esercizio della parola basato sulla Scrittura. Si riferisce piuttosto ad un’attività specifica che si trova in tutte le pagine del Nuovo Testamento, vale a dire conservare e depositare la tradizione tramandata dagli apostoli. Questa attività è diversa dalla spiegazione e dall’applicazione di un brano biblico così come invece succede nel tipico sermone espositivo di oggi.

Dickson struttura l’argomentazione per questa conclusione preliminare in quattro parti.

Prima parte. Ci sono diversi tipi di parlare menzionati nella Bibbia: profetizzare, evangelizzare, leggere, esortare, insegnare e così via. Sappiamo da testi come 1 Corinzi 12:28, 1 Corinzi 14, Romani 12:4–8 e 1 Timoteo 4:13 che Paolo non trattava questi ministeri di parola come identici. Solo uno di questi tipi di parlare (l’attività di insegnare) è riservato agli uomini.

Seconda parte. Nel mondo antico, e in particolare per Paolo, insegnare (didasko) era un termine tecnico per la trasmissione inalterata di una tradizione orale. Insegnare non significa esporre o spiegare, ma trasmettere parole incontaminate. Dalla chiusura del canone biblico non c’è più la necessità di insegnare in questo senso tecnico.

Parte terza. Nel Nuovo Testamento insegnare non significa mai esporre o applicare un brano biblico. Un insegnante era colui che trasmetteva con cura le tradizioni inalterate o il corpo delle parole apostoliche dalla loro fonte originaria a una nuova comunità di fedeli. Alcuni sermoni contemporanei possono contenere elementi di questa trasmissione, ma non è questa la funzione tipica dell’esposizione domenicale. Ciò che noi intendiamo come sermone è più appropriato definirlo esortazione.

Parte quarta. Il deposito apostolico si trova ora nelle pagine del Nuovo Testamento. Nessun individuo è incaricato di preservare e trasmettere inalterate le tradizioni orali riguardanti Gesù. I nostri predicatori possono essere analoghi agli antichi maestri, ma non conserviamo e trasmettiamo il deposito apostolico nella stessa misura, nello stesso modo o con la stessa autorità che li caratterizzava. Il tipico sermone, in cui un predicatore commenta l’insegnamento degli apostoli, ci esorta a seguire quell’insegnamento e poi lo applica, ma non è esso stesso insegnamento. Il sermone moderno è, a seconda delle definizioni, più un profetizzare o un esortare, entrambi ministeri accessibili alle donne.

 

Da sì a no

Dickson include note accademiche nel presentare la sua tesi, così come puntualizzazioni e qualifiche lungo la trattazione. Ma l’essenza della sua argomentazione è sorprendentemente semplice: insegnare non è ciò che facciamo durante la predicazione. Solo l’insegnamento è vietato alle donne. Le donne, quindi, possono predicare sermoni nelle nostre chiese.

Trovo la tesi di Dickson poco convincente per due motivi fondamentali. Credo che la sua visione dell’insegnamento antico sia eccessivamente ristretta e che la sua visione della predicazione contemporanea sia estremamente scarna. Consentitemi di spacchettare questa conclusione esaminando l’insegnamento da diverse angolazioni.

 

L’insegnamento nella chiesa primitiva

Il punto di forza dell’approccio di Dickson è che vengono giustamente messe in luce le diverse tipologie di parola nel Nuovo Testamento. È vero che insegnare ed esortare, profetizzare e leggere non sono la stessa cosa. Eppure la sua definizione eccessivamente tecnica di “insegnamento” non collima con le prove, o in alcuni casi non è nemmeno in linea con un elementare buon senso. Se “non permetto alla donna d’insegnare” può significare “permetto alla donna di predicare perché la predicazione non implica insegnamento”, è necessario usare definizioni molto restrittive di predicazione e insegnamento.

Più che altro c’è da chiedersi come mai questa lettura così ricca di sfumature sia sfuggita per due millenni a quasi tutti gli esegeti. In una eloquente nota finale nell’ultima pagina del libro, Dickson ammette: “Non ho dubbi che, nel corso del tempo, nella chiesa primitiva la parola ‘insegnamento’ sia venuta a significare ‘spiegare e applicare le parole scritte nel Nuovo Testamento (e nell’intera Bibbia)’. Sarebbe una linea di ricerca interessante, ma non sono sicuro che la dimostrazione che in 1 Timoteo 2:12 Paolo intendesse un significato diverso di questo importante termine verrebbe stravolta”. Questa è una confessione significativa. Ma invita alla domanda: “Se ‘insegnamento’ nel mondo antico aveva chiaramente il significato ristretto di ripetizione di una tradizione orale, perché nessuno sembra soffermarsi su questa definizione esclusivamente tecnica?” Di certo la Bibbia è la nostra autorità ultima, ma quando una tesi si basa così fortemente sul contesto del I secolo, nei primissimi secoli della chiesa ci si aspetterebbe di trovare un sostegno a tale tesi, non una minaccia.

Quando una tesi si basa così fortemente sul contesto del I secolo, nei primissimi secoli della chiesa ci si aspetterebbe di trovare un sostegno a tale tesi, non una minaccia.

 

Prendiamo la Didaché, ad esempio. Questo documento della fine del I secolo dice molto sugli insegnanti. Sono chiamati a “[insegnare] tutte le cose sopra dette” [nei primi dieci capitoli del libro] (11:1). Devono insegnare ciò che è in accordo con l’ordine ecclesiastico esposto nella Didaché (11:2). È importante sottolineare che la Didaché presuppone l’esistenza di insegnanti, apostoli e profeti itineranti, i quali si dice insegnassero tutti (didaskon) (11:10-11). È significativo che “insegnamento” sia un termine abbastanza ampio da includere ciò che fanno i profeti e altri oratori, per non parlare della Didaché stessa.

Sebbene “insegnare” possa certamente includere la trasmissione di tradizioni orali riguardanti Gesù, non può limitarsi solo a questo. Come spiega Hughes Oliphant Old, “la Didaché presuppone che ci siano una gran quantità di profeti, insegnanti, vescovi e diaconi che si dedicano a tempo pieno alla predicazione e all’insegnamento” (The Reading and Preaching of the Scriptures, 1:256). Con insegnanti a tempo pieno e “un’assemblea quotidiana dei santi a cui la Parola veniva predicata”, è difficile immaginare questi numerosi ministri impegnati in un “insegnamento” che evitasse sistematicamente la spiegazione di tutti i testi biblici.

Certo, i veri maestri trasmettevano il deposito apostolico, ma questo non significa che ripetessero semplicemente le parole di Gesù. Nella Didaché si dice ai genitori di insegnare (didaxeis) il timore del Signore ai propri figli (4:9). L’autore apparentemente non pensa che l’insegnamento sia ristretto a una definizione altamente tecnica né che la predicazione sia poco più di una telecronaca con aggiunta di applicazione. “O figlio, ti ricorderai notte e giorno di colui che ti predica le parole di Dio e lo onorerai come il Signore, perché là donde è predicata la (sua) sovranità, è il Signore” (4:1). Secondo la Didaché l’insegnamento è qualcosa di più ampio della semplice trasmissione di tradizioni orali, e la predicazione comporta più che qualche  parola di esortazione.

 

L’insegnamento nella sinagoga

Uno dei punti chiave dell’argomentazione di Dickson è che la concezione paolina dell’insegnamento è radicata nella pratica dei farisei, i quali trasmettevano le tradizioni orali dei loro padri (Mc 7:7). Proprio come i farisei avrebbero potuto ripetere i detti di Hillel, così l’insegnante del Nuovo Testamento avrebbe potuto ripetere i detti di Gesù. Secondo Dickson il parallelismo più vicino all’“insegnamento” del Nuovo Testamento l’abbiamo nella trasmissione delle tradizioni rabbiniche che troviamo ripetute e accumulate nella Mishnah.

Questa è una linea di pensiero importante per Dickson, e viene ripetuta più volte all’interno del libro. Il problema di questa argomentazione è duplice.

In primo luogo, mentre la Mishnah raccoglie i detti dei rabbini del I e II secolo, noi vediamo questi stessi rabbini impegnati a spiegare e applicare la Torah. In altre parole: anche se la Mishnah fosse il nostro modello di “insegnamento”, non avremmo una distinzione chiara fra “tradizione orale” e “testi esplicativi”.

 

In secondo luogo il servizio della sinagoga ebraica fornisce un parallelismo con i servizi di culto dei primi cristiani molto migliore rispetto alla Mishnah. Dopo tutto in 1 Timoteo 2 Paolo parla del culto collettivo. Per secoli, prima dell’era cristiana, gli ebrei avevano coltivato l’arte della predicazione e le avevano dato un posto privilegiato nel culto sinagogale. Secondo Old “c’erano uomini devoti in gran numero che avevano dedicato la loro vita allo studio delle Scritture e che si preparavano a predicare quando i capi della sinagoga li invitavano a farlo” (The Reading and Preaching of the Scriptures, 1:102). Ha più senso pensare che Paolo, quando proibisce alle donne di insegnare in 1 Timoteo 2:12, avesse in mente la consolidata tradizione degli uomini che predicavano nel servizio di culto ebraico piuttosto che la mera ripetizione di tradizioni orali.

L’insegnamento nell’Antico Testamento

Inoltre questo ministero di insegnamento sinagogale affonda le sue radici nell’Antico Testamento. Mosè insegnava (didasko, LXX) al popolo gli statuti e le leggi di Dio ripetendoli, sì, ma anche spiegandoli e applicandoli (Dt 4:1-14). I sacerdoti, o almeno alcuni di loro, dovevano essere sacerdoti insegnanti (2 Cr 15:3) e andare per le città di Giuda a insegnare (edidaskon, LXX) al popolo il Libro della Legge (2 Cr 17:9). Esdra si mise a studiare la Legge del Signore e ad insegnare (didaskein, LXX) i suoi statuti e le sue leggi in Israele (Esdra 7:10). Inoltre Esdra e i leviti leggevano la Legge di Dio e insegnavano (edidasken, LXX) al popolo affinché ciò che era stato letto venisse compreso (Ne 8:8).

Le pratiche descritte in Esdra e Neemia danno l’impressione di essere ben consolidate. Ci sono i testi, ci sono insegnanti, e c’è una comunità. Abbiamo una miniatura degli elementi essenziali dei servizi delle sinagoghe ebraiche, e dei servizi cristiani che avrebbero utilizzato il culto sinagogale come punto di partenza. È difficile immaginare che Paolo intendesse comunicare, e tanto meno che il suo pubblico potesse capire, che quando parlava di “insegnamento” non aveva in mente nulla che avesse a che fare con l’Antico Testamento o la tradizione ebraica, ma che pensava unicamente alla tradizione orale farisaica. In tutti i casi dell’Antico Testamento sopra citati, l’insegnante esponeva un testo scritto. Questo non significa che didasko debba necessariamente comportare un’esposizione, ma l’onere della prova spetta a coloro che affermano che di certo non la debba comportare.

L’insegnamento nel Nuovo Testamento

Sono d’accordo con Dickson sul fatto che la proibizione alle donne di insegnare in 1 Timoteo 2:12 non debba essere presa nel senso più ampio possibile. Paolo non intende proibire alle donne di trasmettere la conoscenza a qualcun altro. Sta parlando di correttezza del culto, non del tipo di insegnamento che troviamo da donne a donne in Tito 2 o di quello da Priscilla e Aquila ad Apollo in Atti 18. Ma solo perché respingiamo la definizione più ampia di insegnamento non significa che l’unica altra opzione sia quella più ristretta. Dickson vorrebbe equiparare l’“insegnamento” alla trasmissione della tradizione orale. Questo faceva certamente parte dell’insegnamento nell’era apostolica, ma molti dei passaggi del Nuovo Testamento che trattano della tradizione apostolica non menzionano mai il didasko (1 Cor 2:2; 3:10; 11:2; 11:23-26; 15:1-11Gal 1:6-9; 1 Ts 4:1-2). Si parla piuttosto di ricevere, consegnare o trasmettere.

In particolare il sermone sul monte viene definito “insegnamento” (Mt 7:28-29). Secondo Dickson il sermone sul monte è “insegnamento” perché Gesù corregge la tradizione degli scribi lasciando la propria. Quello che invece Gesù non starebbe facendo è l’esporre un testo. Dickson ha sicuramente ragione riguardo ciò che Gesù sta facendo. Sbaglia, invece, nell’affermare quel che Gesù non sta facendo. Il sermone sul monte è pieno di allusioni all’Antico Testamento, parallelismi e spiegazioni. Non si deve per forza dire che Gesù stia predicando un sermone moderno nel modo in cui lo potremmo fare noi. Il punto non è che nel Nuovo Testamento “insegnare” significhi sempre “esporre”, ma che i due concetti non possono essere separati in maniera così netta.

La concezione di insegnamento degli ebrei del I secolo non può essere separata dalla giudiziosa interpretazione dei testi ispirati.

 

Gesù era conosciuto da molti come “rabbì”, un titolo informale che significa “maestro”. Come maestro, Gesù spesso citava o spiegava le Scritture dell’Antico Testamento. Old sostiene infatti che l’insegnamento di Gesù nel Tempio alla fine del suo ministero avesse lo scopo di mostrare Cristo come l’adempimento della carica rabbinica. In Matteo 21-23 vediamo le diverse scuole del tempo (erodiani, farisei, sadducei) venire a Gesù con le loro domande riguardo alla Legge, e Gesù risponde ad ognuno di loro (1:106). Risolvendo i loro enigmi e uscendo dalle loro trappole, Gesù si è mostrato come il grande maestro, il rabbino di tutti i rabbini. Questo è lo scenario in cui Egli spiegava e interpretava costantemente le Scritture. La concezione di insegnamento degli ebrei del I secolo non può essere separata dalla giudiziosa interpretazione dei testi ispirati, né può essere limitata alla mera “trasmissione di tradizioni orali”.

 

L’insegnamento nelle lettere pastorali

E se (nonostante il contesto dell’Antico Testamento e della sinagoga, l’uso di “insegnare” nel sermone sul monte e l’accezione più ampia di maestro nella Chiesa primitiva) Paolo avesse comunque scelto di usare una definizione molto ristretta di insegnamento nelle lettere pastorali? Dopo aver esaminato tutti gli usi di “insegnare” nelle Epistole, Dickson conclude che l’“insegnare”, come verbo e come sostantivo, non si riferisce all’esposizione della Bibbia, bensì alle parole apostoliche stabilite per le chiese. In parole povere, “insegnare” non significa fare un’esegesi e fornire un’applicazione, ma fare una ripetizione e dare un fondamento. L’“insegnamento” paolino non aveva mai (parola di Dickson, enfasi mia) l’accezione di un’esposizione in senso contemporaneo. A prescindere da ciò che potesse significare altrove, secondo Dickson per Paolo aveva il solo significato di stabilire una tradizione orale.

Dickson ha certamente ragione quando dice che, nelle lettere pastorali, “insegnare” significa trasmettere il buon deposito della verità apostolica su Gesù. Lo studioso complementare conservatore Bill Mounce, ad esempio, non ha problemi ad affermare che 1 Timoteo 2:12 abbia a che fare con “la trasmissione autorevole e pubblica della tradizione riguardante Cristo e le Scritture” o che implichi “la conservazione e la trasmissione della tradizione cristiana” (Pastoral Epistles). Ma si noti che Mounce non riduce la tradizione cristiana alla sola trasmissione orale escludendo l’esplicazione scritturale. Inoltre il Theological Dictionary of the New Testament (letteralmente: Dizionario Teologico del Nuovo Testamento, da qui in avanti TDNT, N.d.R.) sostiene che il didaskein sia “strettamente legato alla Scrittura anche nel NT”. Più avanti il TDNT afferma che anche nelle lettere pastorali “la connessione storica tra Scrittura e didaskein rimane inalterata”.

Non è necessario equiparare il didasko a un sermone in tre sezioni per capire che la trasmissione del deposito apostolico difficilmente può essere fatta prescindere dai riferimenti biblici e dall’esposizione degli stessi.

 

Questo è sicuramente giusto. Dobbiamo davvero credere che, quando Paolo insisteva sul fatto che gli anziani dovessero essere adatti a insegnare, non si riferisse all’interpretazione delle Scritture o al tagliare rettamente la parola della verità (2 Tm 2:15)? L’insegnamento deve necessariamente avere una connotazione più ampia rispetto alla trasmissione di tradizioni orali, altrimenti come potrebbe Paolo dire alle donne anziane di essere “maestre del bene” (kalodidaskalo) per le donne più giovani? Oppure consideriamo 1 Timoteo 4:13, dove Paolo dice a Timoteo di dedicarsi alla lettura pubblica delle Scritture, all’esortazione e all’insegnamento. Certo non si tratta di compiti identici, ma, stando all’interpretazione di Dickson, Timoteo avrebbe dovuto leggere le Scritture, esortare a partire dalle esse e poi tramandare il deposito apostolico senza mai spiegare nessuna delle Scritture appena lette.

Allo stesso modo Dickson sostiene che Paolo, quando dice che ogni Scrittura è utile a insegnare, intende dire che Timoteo avrebbe dovuto leggere privatamente le Scritture così da essere meglio equipaggiato per trasmettere pubblicamente il buon deposito, ma, ancora una volta, senza esporre alcun passo della Bibbia. Se questo fosse corretto, allora Paolo non ha mai voluto che gli insegnanti usassero i versetti della Bibbia per riprendere, correggere o educare. La Bibbia darebbe informazioni su questi obiettivi senza prevedere alcun tipo di spiegazione. Ciò mette a dura prova la credulità. Si guardi alla predicazione in Atti. Non si trova quasi nessuna trasmissione del buon deposito che non dia anche spiegazione delle Scritture. E in 1 Corinzi 15, dove Paolo trasmette esplicitamente ciò che anche lui ha ricevuto, il messaggio non è la mera ripetizione di formule verbali, ma la tradizione apostolica che Cristo morì per i nostri peccati, secondo le Scritture, e che è stato risuscitato il terzo giorno, secondo le Scritture. Non è necessario equiparare il didasko a un sermone in tre sezioni per capire che la trasmissione del deposito apostolico difficilmente può essere fatta a prescindere dai riferimenti biblici e dall’esposizione degli stessi.

L’insegnamento nei sermoni odierni

Se la definizione di Dickson dell’antico insegnamento è troppo ristretta, la sua concezione della predicazione contemporanea è troppo impoverita. Dickson ritiene che il sermone sia essenzialmente una telecronaca con aggiunta di applicazione. Confesso di avere una visione molto diversa di ciò che comporta la predicazione, e non perché ritengo che sia qualcosa di meno che esposizione più applicazione, ma perché credo che sia molto di più. Il predicatore è un kerux, un araldo (2 Tm 1:11). Ovviamente non predichiamo con l’autorità di un apostolo, ma gli uomini qualificati chiamati a predicare portano avanti la trasmissione del deposito apostolico e devono predicare con autorità. Altrimenti perché Paolo, con così tanta enfasi e con esortazioni così forti, avrebbe ordinato a Timoteo di predicare la parola, di rimproverare, di esortare, con ogni tipo di insegnamento e pazienza (2 Tm 4:1-2)?

In definitiva credo che l’approccio di Dickson non solo non sia né storicamente né esegeticamente convincente, ma che sia inattuabile dal punto di vista pratico, almeno per quanto riguarda i complementaristi. Gli egualitari vorranno sostenere la predicazione femminile per svariati motivi. Ma i complementaristi che si cimenteranno in quest’ardua impresa sostenendo che “questo messaggio della domenica mattina è una condivisione e non un sermone” o che “questa donna che predica è sotto l’autorità dell’assemblea” scopriranno che le loro argomentazioni atte ad evitare che le donne possano predicare sempre in ogni modo appariranno estremamente arbitrarie.

 

L’evento araldico non può essere separato dall’esercizio dell’autorità e dell’insegnamento, due cose, queste, che alle donne non è concesso fare nel servizio di culto.

 

In diversi punti Dickson ammette che alcune predicazioni odierne possano includere l’insegnamento, e che i diversi tipi di parlare nominati nel Nuovo Testamento probabilmente si sovrapponevano.

  • “Non sto dicendo che queste tre forme di parlare (insegnamento, profezia ed esortazione) siano strettamente separate o che non ci sia una significativa sovrapposizione di contenuti e funzioni”.
  • Alcuni sermoni contemporanei includono qualcosa che si avvicina all’autorevole conservazione ed esposizione del deposito apostolico, ma non credo che questo sia il compito caratteristico dell’esposizione domenicale”.
  • “Non ho dubbi sul fatto che Timoteo abbia aggiunto a questi insegnamenti apostolici i suoi appelli, le sue spiegazioni e le sue applicazioni, ma questi non sono gli elementi costitutivi o caratteristici dell’insegnamento. Ma a quel punto Timoteo sarebbe passato a ciò che è più propriamente chiamato ‘esortazione’”.
  • “Non sto creando una rigida distinzione tra insegnamento ed esortazione, però sto constatando che, mentre l’insegnamento consiste fondamentalmente nell’esporre qualcosa in forma fissa, l’esortazione riguarda principalmente il sollecitare le persone ad obbedire e ad applicare la verità di Dio”.
  • “Senza dubbio c’era un certo grado di insegnamento nell’esortazione e nella profezia, così come c’era un po’ di esortazione (e forse di profezia) nell’insegnamento”.
  • “Penso anche che un po’ di trasmissione del deposito apostolico avvenga ancora oggi in ogni buon sermone, in alcuni più che in altri”.

Con tutti questi elementi della predicazione mescolati insieme, come poteva Paolo aspettarsi che Timoteo trovasse il bandolo della matassa e capisse cosa non doveva permettere alle donne di fare? E cosa altrettanto importante: come facciamo noi a discernere quando un sermone è solo un’esortazione senza autorità da quando invece si trasforma in una trasmissione autorevole del deposito apostolico? Forse sarebbe meglio vedere l’“insegnamento” più o meno come ciò che il predicatore fa la domenica, piuttosto che come un termine altamente tecnico che non trova senso nella Chiesa primitiva, nella sinagoga ebraica, nell’esempio di Gesù o nelle istruzioni di Paolo.

 

A prescindere dal materiale offerto dal predicatore o dal benestare da parte degli anziani, l’evento araldico non può essere separato dall’esercizio dell’autorità e dell’insegnamento, due cose, queste, che alle donne non è concesso fare nel servizio di culto.

 

 

Articolo apparso su TGCItalia.org, pubblicato con permesso.

 

Tematiche: Chiesa, Controversie, culto, Donne, Predicazione

Kevin DeYoung

Kevin DeYoung

 

Kevin è pastore della Christ Covenant Church a Matthews, Carolina del Nord (Stati Uniti). È professore di teologia sistematica al Reformed Theological Seminary ed è il presidente del Comitato di The Gospel Coalition. Lui e sua moglie Trisha hanno sei bambini.

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