L’Antico Testamento insegna la giustificazione per sola fede?

 

 

 

 

La grazia e la misericordia di Dio

L’Antico Testamento insegna la giustificazione per sola fede? Certamente non troviamo un’esposizione esplicita di questa dottrina come nel Nuovo Testamento. In un certo senso, questo non è sorprendente, poiché il Nuovo Testamento rappresenta il culmine della rivelazione divina e fornisce una chiarezza che non è altrettanto evidente nella testimonianza dell’Antico Testamento. Possiamo però affermare che l’Antico Testamento mette in evidenza la grazia di Dio e, attraverso una lettura attenta, mostra che l’essere umano è in giusta relazione con Dio mediante la fede.

 

Il Signore chiamò Abramo, che viveva a Ur dei Caldei, fuori dall’idolatria e dal culto di altri dèi (Giosuè 24:2-3). Abramo non fu scelto perché particolarmente virtuoso, ma a causa del proposito di grazia di Dio, per la grande misericordia e amore del Signore. L’alleanza stabilita con Abramo fu trasmessa e confermata con Isacco e Giacobbe, e nessuno dei due – in particolare Giacobbe – si distinse per la propria integrità morale. Allo stesso modo, Yahweh liberò Israele dalla schiavitù in Egitto, ma il comportamento del popolo nel deserto dimostra che la loro redenzione non può essere attribuita al loro valore morale. E così avviene lungo tutto l’Antico Testamento, dal tempo dei giudici fino agli esili assiro (722 a.C.) e babilonese (586 a.C.). Yahweh giudica Israele per il suo peccato, ma non lo abbandona come suo popolo e, nonostante la loro ostinazione e disobbedienza, promette di stabilire con loro una nuova alleanza (es. Gr 31:31-34) e di scrivere la sua legge nei loro cuori. Israele non viene abbandonato, pur avendo ripetutamente adorato e servito altri dèi. Il rapporto di Israele con il Signore si fonda sulla sua grazia e misericordia, non sulla bontà e giustizia del popolo eletto.

 

Due testi fondamentali

È utile esaminare alcuni passi dell’Antico Testamento per comprendere il concetto di giustizia, e i due testi che desidero considerare per primi sono Genesi 15:6 e Abacuc 2:4. La scelta di questi brani è chiaramente influenzata dal Nuovo Testamento e alcuni potrebbero esprimere delle riserve per questo motivo. Ritengo, tuttavia, che concentrarsi su questi due passi non sia un’operazione arbitraria, ma un approccio che chiunque creda nell’ispirazione e nell’autorità delle Scritture dovrebbe adottare. In altre parole, una lettura canonica dell’intera Bibbia è essenziale per gli interpreti cristiani, per coloro che riconoscono le Scritture come la Parola di Dio o, come affermavano i cristiani delle generazioni passate, “la Scrittura interpreta la Scrittura”. Riconosciamo che Genesi 15:6 e Abacuc 2:4 sono testi fondamentali per comprendere il piano di Dio rivelato nelle Scritture, incluso l’Antico Testamento, poiché gli autori del Nuovo Testamento li citano per sostenere la dottrina della giustificazione per fede.

Paolo, ad esempio, richiama la figura di Abramo e il passo di Genesi 15:6 per argomentare a favore della giustificazione per fede in Galati 3:6 e Romani 4:3. In realtà, Paolo torna più volte su Genesi 15:6 nel suo discorso in Romani 4, citandolo anche in Romani 4:9 e riprendendolo ancora in Romani 4:22. Vale la pena ricordare che anche Giacomo fa riferimento a Genesi 15:6 in Giacomo 2:23, e sembra utilizzarlo in un modo che, a prima vista, appare molto diverso da quello di Paolo. Tornerò su Giacomo più avanti in questo libro per dimostrare che tra Paolo e Giacomo non vi è una contraddizione. Al momento, la nostra attenzione è rivolta principalmente all’uso paolino di questo testo. Inoltre, prenderò in esame Abacuc 2:4, che Paolo cita in Romani 1:17 e Galati 3:11. Entrambi questi versetti sono chiave nella difesa della giustizia mediante la fede. È interessante notare che anche l’autore della Lettera agli Ebrei richiama lo stesso passo (Ebrei 10:38) proprio prima di introdurre il grande capitolo sulla fede in Ebrei 11.

 

Il mio obiettivo qui non è esporre in dettaglio l’interpretazione di questi testi in Paolo ed Ebrei. Piuttosto, il fatto che essi citino Genesi 15:6 e Abacuc 2:4 ci spinge a tornare a questi versetti nel loro contesto originario nell’Antico Testamento. Vogliamo cogliere il significato che questi passi avevano all’interno di Genesi e Abacuc, poiché una lettura canonica della Scrittura non implica trascurare il contesto storico in cui i testi sono stati scritti. Una lettura canonica non significa ignorare o annullare la voce dei testi nella loro ambientazione storica. Al contrario, dobbiamo leggere sia canonicamente sia storicamente, tenendo conto dell’intera testimonianza biblica e del contesto originale degli autori. Questi due approcci non devono essere contrapposti, ma piuttosto integrati, poiché insieme arricchiscono e approfondiscono la nostra comprensione del testo biblico. La distinzione accademica tra studiosi dell’Antico Testamento e studiosi del Nuovo Testamento, pur essendo comprensibile data la vastità della letteratura biblica, ha talvolta oscurato l’unità della Bibbia e la necessità di adottare un approccio che sia al tempo stesso storico e canonico.

 

Genesi 15:6

Cominciamo con Genesi 15:6. In Genesi 12:1-3, Yahweh aveva promesso ad Abramo una terra, una discendenza e una benedizione universale. Tuttavia, nel capitolo 15, erano trascorsi diversi anni e nessuna di queste promesse si era ancora realizzata. Abramo non possedeva alcuna parte della terra di Canaan, né la benedizione si era estesa al mondo intero. Quest’ultima cosa non era sorprendente, ovviamente, poiché il compimento di una benedizione universale richiede tempo, ma ciò che più angustiava Abramo era il fatto di non avere ancora un figlio, nonostante il Signore glielo avesse promesso.

Il capitolo 15 si apre con Yahweh che assicura ad Abramo una grande ricompensa, ma Abramo, forse con una punta di scetticismo, si interroga sul valore di questa promessa, dal momento che non ha discendenza e il suo erede sarebbe stato il suo servo Eliezer. Il Signore allora gli garantisce che il suo erede sarà un figlio nato da lui, un figlio di carne e sangue, ma poi il racconto accelera in modo straordinario: la promessa della discendenza viene ampliata in modo incredibile. Il Signore invita Abramo a uscire all’aperto e a contare le stelle nel cielo, annunciandogli che la sua discendenza sarà numerosa come quelle stelle. Questo episodio può sembrarci familiare e quasi scontato, ma in realtà è sorprendente.

Abramo era preoccupato di avere almeno un figlio e improvvisamente Yahweh gli rivela che la sua discendenza sarà innumerevole, ben oltre qualsiasi sua aspettativa o immaginazione. Dobbiamo anche considerare lo stato d’animo di Abramo: era profondamente scoraggiato e avrebbe potuto facilmente dubitare della promessa ricevuta. Se il primo passo della promessa, avere almeno un figlio, non si era ancora realizzato, come avrebbe potuto credere di avere una moltitudine di discendenti? Eppure, Abramo ripose la sua fiducia nelle parole di Dio e, come afferma Genesi 15:6, “Egli credette al Signore” e di conseguenza Yahweh “glielo accreditò come giustizia.”

 

L’interpretazione di questo testo da parte di Paolo è assolutamente corretta. Abramo non fece nulla per essere considerato giusto. Era completamente impotente nell’adempiere la promessa, essendo ormai anziano e con una moglie sterile. Abramo fu dichiarato giusto non perché obbedì a Dio, ma perché si fidò di Lui; non per ciò che realizzò, ma per ciò che credette; non perché lavorò per Dio, ma perché si affidò alla Sua promessa. Non sarebbe neppure corretto porre l’accento sulla fede di Abramo come se fosse una qualità straordinaria che lo rendeva nobile. Abramo fu dichiarato giusto perché distolse lo sguardo da sé stesso e dalle proprie capacità, riponendo la sua fiducia nella parola miracolosa della promessa di Dio. La sua fede gli fu accreditata come giustizia per via dell’oggetto della sua fede: egli confidava nell’unico vero Dio, “che opera in favore di quelli che sperano in lui” (Isaia 64:4).

 

Si potrebbe obiettare all’enfasi su Genesi 15:6 con la seguente domanda: non aveva forse Abramo già obbedito al Signore lasciando la sua terra natale (Genesi 12:1-4) prima degli eventi descritti in Genesi 15? In un certo senso, dunque, la sua obbedienza non ha preceduto la sua fede? È vero che in Genesi 12 Abramo obbedì al Signore, intraprendendo il viaggio verso la terra promessa. Tuttavia, una lettura canonica della Scrittura ci offre una preziosa chiave di interpretazione. L’autore della Lettera agli Ebrei osserva: “Per fede Abraamo, quando fu chiamato, ubbidì, per andarsene in un luogo che egli doveva ricevere in eredità” (Ebr. 11:8). L’obbedienza di Abramo scaturì dalla sua fede e affondava le sue radici in essa. Possiamo dire che la fede era la radice e l’obbedienza il frutto. L’autore della Lettera agli Ebrei travisa forse Genesi 12?

Impone alla narrazione un’interpretazione estranea? Assolutamente no. La sua lettura è perfettamente sensata. Cosa spinse Abramo ad abbandonare la sua terra natale e la sua famiglia per stabilirsi in una terra che non aveva mai visto? Non avrebbe mai lasciato il suo paese per un luogo sconosciuto, di cui forse non aveva mai nemmeno sentito parlare, se non si fosse affidato alla promessa di Dio, credendo che avrebbe ricevuto ciò che gli era stato promesso. In questo episodio emerge anche il profondo legame tra fede e obbedienza, una connessione frequentemente sottolineata nella testimonianza biblica. La giustificazione è per fede e soltanto per fede, ma questa fede non rimane mai isolata. La vera fede trasforma sempre la vita, talvolta in modi straordinariamente radicali.

 

Abacuc 2:4

Un altro passo su cui vogliamo riflettere è Abacuc 2:4. Per comprendere il significato di questo versetto nel suo contesto, è utile un breve riassunto del libro di Abacuc. Il testo si apre con il profeta che si lamenta della malvagità e dell’illegalità diffuse nella nazione di Giuda, chiedendosi come Dio possa tollerare un simile degrado. Il Signore risponde promettendo che giudicherà il suo popolo e lo strumento del giudizio sarà la terrificante potenza militare di Babilonia. Tuttavia, questa risposta getta Abacuc in un nuovo dilemma: come può Dio usare una nazione ancora più corrotta di Giuda come strumento del suo giudizio? Il Signore non fornisce tutte le risposte, ma assicura al profeta che anche Babilonia sarà giudicata: la sua malvagità non sarà dimenticata né ignorata e il giorno del suo castigo arriverà. È in questo contesto di giudizio che leggiamo: “Il giusto per la sua fede vivrà” (Abacuc 2:4).

 

Prima di approfondire il significato di questo versetto così celebre, dobbiamo considerare il ruolo del capitolo 3 nel libro di Abacuc. Qui troviamo un salmo, descritto anche come la preghiera del profeta. Non possiamo analizzare il testo in ogni dettaglio, ma le immagini evocano l’Esodo di Israele dall’Egitto e le vittorie sui nemici nei tempi antichi. Si celebra la gloria, la potenza e la liberazione operata dal Signore per il suo popolo, con la supplica che Dio, in un tempo di giudizio e di ira, mostri ancora misericordia e rinnovi il suo popolo (Abacuc 3:2). Così come Dio ha usato misericordia in passato, Abacuc lo implora di farlo di nuovo. La salvezza e la liberazione che Israele ha già sperimentato verranno concesse ancora una volta, ma prima dovrà arrivare il giudizio, che devasterà il popolo di Dio. Tuttavia, questo non sarà l’atto finale della storia. Ciò che accadrà ai raccolti e al bestiame sarà un riflesso della condizione di Israele: i fiori del fico non sbocceranno, le viti non daranno uva né vino, il cibo e le olive scarseggeranno e greggi e armenti non basteranno. Questa è l’immagine del futuro immediato di Israele, un popolo che non ha portato frutto, ma si è abbandonato al male. Eppure, Abacuc confida che alla fine il Signore manifesterà la sua misericordia, che la nazione sarà salvata e trionferà sui suoi nemici (Abacuc 3:18-19).

 

La preghiera di Abacuc ci aiuta a interpretare Abacuc 2:4. I giusti credono che il Signore, alla fine, salverà il suo popolo. Anche se il giudizio è imminente, anche se non vi è alcuna ragione umana per sperare in un futuro per Israele, poiché Israele ha trasgredito la legge (Abacuc 1:4), i giusti confidano che Dio mostrerà ancora misericordia e libererà il suo popolo, così come ha fatto nelle battaglie del passato della storia di Israele. Molti studiosi sostengono che la parola ebraica per “fede” (emunah) in questo versetto dovrebbe essere tradotta come “fedeltà” anziché “fede”, sollevando la questione se Paolo e l’autore della Lettera agli Ebrei abbiano interpretato correttamente il testo nel suo contesto originale. Tuttavia, abbiamo già sottolineato l’intima relazione tra fede e obbedienza, tra fidarsi di Dio e vivere in modo a lui gradito, per questo motivo, non dovremmo creare una netta separazione tra fede e obbedienza. Allo stesso tempo, la storia narrata in Abacuc supporta la lettura di Paolo e dell’autore della Lettera agli Ebrei. Israele non sarebbe stato salvato per la sua giustizia, poiché aveva fallito miseramente, ma i giusti, coloro che appartengono a Dio, credono che il Signore manifesterà la sua misericordia, come ha fatto nel passato. La salvezza di Israele non dipende dalla sua bontà, ma dalla grazia infinita di Dio.

 

 

Questo articolo è adattato da Justification: an Introduction di Thomas R. Schreiner

 

 

Sul tema della fede consigliamo La corsa della fede di R.C. Sproul, Ed. Coram Deo.

La corsa della fede

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Tematiche: Fede, Insegnamento biblico, Nuova nascita, Salvezza, Teologia

Thomas R. Schreiner 

Thomas R. Schreiner

 

È professore di Interpretazione del Nuovo Testamento al Seminario Teologico Battista del Sud a Louisville, Kentucky, e il Pastore per la Predicazione alla Clifton Baptist Church.
Lo puoi trovare su Twitter a @DrTomSchreiner.

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