In quale modo siamo morti alla legge?
“Quanto a me, per mezzo della legge, sono morto alla legge affinché io viva per Dio” (Gal. 2:19)
Nei tempi del Nuovo Testamento, escludendo il Signore Gesù, non è esistita autorità più alta dell’apostolo Paolo riguardo alla legge. In un modo o nell’altro, Paolo menziona la “legge” quasi un centinaio di volte. Sebbene non tutti i riferimenti siano alla legge morale di Dio (i dieci comandamenti), molti di essi lo sono. Questo singolo aspetto dovrebbe già allertarci circa l’importanza della relazione esistente fra il credente e la legge. Dovrebbe anche circoscrivere qualsiasi impressione affrettata che possiamo aver maturato circa l’inopportunità di trattare questa tematica una volta convertiti a Cristo. In effetti, uno dei rimedi cui necessitiamo maggiormente per curare i malanni dell’evangelismo moderno è lo studio della collocazione e dell’utilizzo della legge morale. Il versetto citato all’inizio costituisce un buon punto di partenza: “Quanto a me, per mezzo della legge, sono morto alla legge affinché io viva per Dio” (Gal. 2:19).
Vale la pena notare come tale affermazione apostolica sia un capolavoro di sintesi. Ciò che Paolo intende potrebbe sfuggire facilmente proprio per il modo stringato col quale si esprime: “Sono morto alla legge – per mezzo della legge – io vivo per Dio”. Queste affermazioni possiedono un voltaggio elevato di valenza teologica. Eppure, è fin troppo facile leggere queste parole così in fretta da non coglierne il senso, trasformando una preziosa porzione della Scrittura in un groviglio di termini privi di significato. Che molti non siano riusciti a cogliere il senso di queste parole, scelte con cura dall’apostolo, si evince facilmente dal fatto che pochi sono i sermoni predicati a riguardo. Quand’è l’ultima volta che abbiamo ascoltato una predicazione su Galati 2:19? E’ probabile che questa grande affermazione di Paolo non sia apprezzata perché non viene compresa correttamente.
Il credente è “morto alla legge”.
Paolo parla di sé stesso come qualcuno che è morto alla legge. Si riferisce, senza alcun dubbio, alla sua conversione a Cristo. Parla di sé, ma lo stesso può dirsi di ogni credente. Non appena nasciamo di nuovo, noi moriamo alla legge. Non si tratta di un processo di morte. Noi siamo morti alla legge nell’istante in cui siamo stati uniti a Cristo, per la fede. Chi è vivo in Cristo, non può esserlo alla legge.
E’ vero anche l’opposto. Ogni persona incredula è viva alla legge di Dio. Il non credente si trova in una condizione simile a quella del primo Adamo: se vuole godere della vita eterna, è obbligato ad adempiere la legge morale, perfettamente ed interamente. Che si scelga o meno di definire tale relazione dell’uomo naturale come un patto di opere, ciò non modifica il fatto che egli debba adempiere l’intera legge se intende arrivare in cielo senza affidarsi a Gesù (e nessun uomo naturale pone realmente la propria fiducia in Cristo, quali che siano le pretese del contrario).
La tragedia dell’incredulo sta nella sua inconsapevolezza dei propri doveri ed obblighi verso la legge di Dio. Può anche sbarazzarsi dei suoi timori occasionali e degli stimoli della coscienza dicendo di “non essere interessato alla religione”; tuttavia, dobbiamo informarlo che, indipendentemente dal suo interesse, egli permane vivo alle esigenze della santissima legge di Dio. Ciò trova conferma nell’obbligo di dover rendere conto a Dio, alla fine, per ogni occasione della propria esistenza in cui si è mostrato incapace di soddisfare le esigenze della legge. Presso Dio si trova un registro perfetto di tutti i suoi pensieri, di tutte le sue parole e di tutti i suoi atti. Anche un solo peccato è sufficiente a dannarlo. Stando al nostro Salvatore, chi non si è riconciliato con Dio deve restare nella prigione della punizione eterna “Io ti dico in verità che di là non uscirai, finché tu non abbia pagato l’ultimo centesimo” (Matt. 5:26). Questo insegnamento non risulta molto popolare ai nostri giorni, ma è fin troppo chiaro: l’inferno è una sofferenza eterna in quanto il peccatore senza Cristo non può mai ripagare il debito contratto verso la giustizia divina.
Il peccatore privo di un’infarinatura religiosa probabilmente non presta molta attenzione a questa tematica. Nuota nel corso dei piaceri esistenziali, del tutto ignaro del precipizio in cui questo fiume lo scaraventerà dopo la morte. È vivo alla legge di Dio – vivo alle sue esigenze, perseguibile dalla sua condanna, esposto alla sua maledizione, privo di assicurazione contro la perdita eterna della sua preziosa anima.
Esiste poi un altro tipo di persona che è viva alla legge di Dio. Si tratta del peccatore devoto e religioso, che si preoccupa della vita dopo la morte. L’apostolo Paolo, prima della sua conversione, era uno di questi; molti dei suoi connazionali erano analogamente devoti e coscienziosi, un po’ come un discreto numero di persone in ogni Stato odierno. Sono “vivo alla legge”, dunque ricercano istintivamente la giustizia sforzandosi di mantenerla.
Il tratto distintivo della persona devota, ma inconvertita, è quello di trasformare la legge in un vangelo. Si illude che Dio ci abbia conferito la legge come uno strumento per meritare la vita eterna. All’oscuro della giustizia divina, queste persone procedono nello stabilire una propria giustizia, attraverso la legge morale (Rom. 10:3).
Siamo di fronte all’errore tipico di ogni persona priva di Cristo. Vuole guadagnarsi il cielo con la propria bontà. I tentativi attuati in tal senso dalla maggior parte delle persone sono minimi e non comportano troppe preoccupazioni o difficoltà. Tuttavia, esistono delle situazioni, soprattutto nei monasteri e nei conventi, dove persone non convertite si adoperano in modo straordinario per riconciliarsi con Dio, attuando “buone opere” e la mortificazione di sé. Le loro menti, ottenebrate al vangelo della salvezza in Cristo, le conducono a compiere senza risparmiarsi ciò che ogni uomo naturale ritiene debba essere fatto al fine di ottenere il favore divino – opere, opere, opere, per acquisire un merito personale.
Come possiamo spiegare questo istinto radicato nell’uomo? E’ dato dal fatto che egli è nato “vivo alla legge”. Si tratta dell’unico modo a lui noto per riconciliarsi con Dio. Solo il Giorno del Giudizio rivelerà quanti monaci e suore zelanti, nel corso dei secoli, hanno digiunato fino alla morte nella ricerca vana della vita e della pace perseguite in modo errato. L’apostolo Paolo stesso fu pervaso da tale spirito prima della sua conversione. Riconsiderando quel periodo della sua vita, scrive con profondo sollievo di essere divenuto “morto alla legge” nel momento in cui venne a Cristo.
Quando l’uomo scopre la giustizia di Gesù rivelata nel vangelo, egli scopre il ribaltamento di tutte le sue relazioni. La sua relazione con Dio è risanata, mentre quella con la legge morale è radicalmente differente: non è più soggetto alle sue esigenze imperiose, poiché ora possiede un altro Padrone.
I vangeli falsificati di questo mondo sono solo un unico vangelo errato: la salvezza attraverso gli sforzi umani. Si tratta, dice Paolo di “…un altro vangelo. Ché poi non c’è un altro vangelo; però ci sono alcuni che vi turbano e vogliono sovvertire il vangelo di Cristo” (Gal. 1:6,7). Quanti di noi sono nella fede devono adottare lo stesso approccio apostolico nei confronti di qualsiasi predicatore che tenti di comunicarci un vangelo costruito con la legge di Dio. Dobbiamo ribadire come tali persone siano “anatema” (Gal. 1:9).
Il credente è “morto per mezzo della legge”.
Cosa aiuta l’uomo naturale a comprendere che tutta la propria bontà non è sufficientemente buona? Molti, ovviamente, non ci arriveranno mai; tuttavia, alcune grandi anime che nella loro ricerca di Dio e della pace si sono spinte oltre la mediocrità, fino al punto dell’esaurimento, sono riuscite a conseguirli. È il caso di Paolo, di Agostino, di Lutero, di George Whitefield. L’apostolo parla a nome di tutti loro quando afferma di essere “morti alla legge per mezzo della legge”.
La legge morale, condotta all’attenzione della coscienza per il potere dello Spirito Santo, porta l’uomo a farla finita con la propria giustizia. La legge è una spada nella mano dello Spirito che mette a morte il nostro istinto naturale di peccatori a ricercare la vita e la pace attraverso la bontà personale. Un esempio amplificato di tale esperienza, che definiamo come convinzione di peccato, ci viene fornita da Paolo in Romani 7:7-13. All’atto del suo risveglio alla fede, constatò come la legge demolisse le sue speranze di salvezza basate sui propri sforzi. Quando si rese conto della spiritualità, della perfezione e della santità delle esigenze divine, giunse alla disperazione di poter conseguire la salvezza attraverso la legge.
In termini semplici, quella stessa legge che l’apostolo considerò erroneamente come la strada per ottenere la giustizia, divenne lo strumento nelle mani di Dio per mettere a morte la sua giustizia, una volta e per sempre. La legge è lo strumento dello Spirito per uccidere le nostre speranze di salvezza attraverso di essa. Ecco allora che la legge qui viene considerata in due aspetti distinti: come patto e come strumento evangelistico. Utilizzandola in chiave evangelistica, ci desta dalle nostre illusioni di poter trovare la pace attraverso la legge come patto di vita. E’ la scoperta fatta da Paolo quando incontrò il Cristo risorto sulla via di Damasco (Atti 9). Il conflitto interiore era cominciato ben prima, visto come “Ti è duro recalcitrare contro il pungolo” (Atti 9:5) – di sicuro un riferimento all’azione dello Spirito nella sua anima. Quando venne al Salvatore, il conflitto giunse al termine. Ora, “morto alla legge” e profondamente convinto “per mezzo della legge” della propria radicata peccaminosità, si affida totalmente alla misericordia di Gesù per conseguire la vita eterna. È questa transizione che spiega il cambiamento radicale e sorprendente di tutta la sua esistenza e del suo ministero: “Colui che una volta ci perseguitava, ora predica la fede, che nel passato cercava di distruggere” (Gal. 1:23). Non stupisce che i credenti di allora “…glorificavano Dio” (Gal. 1:24) per lui!
Per quanto nessuno possa creare dei condizionamenti salvifici nell’anima del prossimo, al di fuori di un intervento dello Spirito, ogni predicatore del vangelo dovrebbe comunque pregare per una misura aggiuntiva di tale dono vivificante, così da presentare le esigenze divine ai peccatori in modo tale da smantellare la fiducia nella loro giustizia e meritorietà. Una predicazione vivificante è quanto la nostra società necessita disperatamente.
Che il ministro di culto prepari i propri sermoni come il pescatore prepara le sue reti – con l’intenzione esplicita di prendere i peccatori e condurli a disperare di se stessi. Lo Spirito ci assiste in questa grande opera divenendo uno “spirito di servitù” (Rom. 8:15) a quanti Dio chiamerà nella Sua grazia. La grande arte dei pescatori di uomini risiede principalmente nel sapere come preparare al meglio un sermone capace di convincere gli uomini di peccato e condurli alla fine di se stessi.
Il credente “vive per Dio”.
Qui l’apostolo dichiara quale sia il fine spirituale e morale cui il credente viene condotto quando è passato dalla legge alla grazia: “vive per Dio”. Ciò cui la conversione ci porta è questo: piacere a Dio. La nuova nascita determina il tipo di cambiamento più profondo e meraviglioso nell’anima. Veniamo trasportati dall’egocentrismo al teocentrismo. Date le sue conseguenze, si tratta di una rivoluzione ancora più importante di quella copernicana. L’universo dell’incredulo ruota attorno a lui stesso; quello del credente ruota attorno al Signore. Quale cambiamento morale potrebbe risultare migliore? Solo un miracolo morale può indurre un peccatore ad odiare il proprio peccato ed amare quel Dio che in precedenza detestava.
A questo punto dell’argomentazione apostolica si può essere tentati di supporre che la legge morale venga definitivamente accantonata. Non appartiene forse alla vecchia vita, precedente la conversione? Ora che siamo morti alla legge, non dobbiamo dunque relegarla a quegli aspetti inutili al bene del credente? In effetti, l’idea di sbarazzarci della legge come fosse un vestito consunto, o un paio di scarpe consumate, risulta attraente. Farlo, però, va a nostro pericolo. La legge morale continua ad esercitare una funzione vitale nell’esistenza del credente: è la sua regola di vita.
Vi sono stati ovviamente dei tentativi di “vivere per Dio” senza badare alla legge morale. La formula forse più abusata è quella di affermare come il credente non sia vincolato da altra legge che quella dell’amore. Un modo ulteriore di evitare la legge morale è quello di sostenere che possiamo essere talmente ripieni dello Spirito da riuscire ad andare ben oltre la legge. “La legge può essere superata dall’uomo ricolmo dello Spirito”. Questo è quanto viene sostenuto da alcuni predicatori.
Il problema che risiede nell’assumere l’amore e una vita ricolma dallo Spirito come regole di comportamento è che entrambe non ci forniscono alcuna prescrizione per la vita di tutti i giorni. Anche Hollywood crede nell’amore, ma rifiuta di vivere nel modo prescritto al credente. Il movimento della New Age ha la propria versione dell’amore, al pari di quanti adoravano Venere ai tempi dell’antica Roma! “Amore” è un termine privo di significato e deve trovare una definizione.
Ringraziando il Signore, il Nuovo Testamento definisce cosa intenda per “amore”. Lo stesso apostolo Paolo, che senza dubbio si arrovellò non poco nella propria anima circa tali tematiche, enuncia il significato dell’amore in modo incontestabile: “l’amore quindi è l’adempimento della legge” (Rom. 13:10). Se ancora permanevano delle esitazioni nella sua mente circa l’aspetto preciso della “legge”, ecco che tutto viene dissipato: “Infatti il «non commettere adulterio», «non uccidere», «non rubare», «non concupire» e qualsiasi altro comandamento si riassumono in questa parola: «Ama il tuo prossimo come te stesso” (Rom. 13:9). Non vi è nulla di più certo del fatto che l’amore, nell’unico senso in cui Dio lo apprezza, consiste nell’obbedienza alla legge morale.
I dieci comandamenti riempiono il termine “amore” di valenza biblica. La legge non è il vangelo e non può salvarci. Quando però siamo redenti, la legge ci indica quello stile di adorazione e di vita che Dio esige da noi. E’ così che noi “viviamo per Dio”. Il credente che desidera piacere al Signore attraverso una vita di obbedienza, troverà la luce di cui abbisogna nella legge morale.
Ecco dunque come la legge ci viene presentata da Paolo in questo passo, nei suoi tre aspetti di fondo: come un patto di vita, come uno strumento di evangelizzazione e come una regola di vita. Fin quando non riusciremo a cogliere questi tre utilizzi e funzioni della legge, permarremo dei teologi scadenti.
E tutto ciò, Paolo lo esprime (in greco) con solo undici termini: “Quanto a me, per mezzo della legge, sono morto alla legge”. Vorremmo forse sostenere che non scrivesse per ispirazione?
Tematiche: Bibbia, Conversione, Teologia, Vangelo
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