I piaceri e i pericoli della vita online

 

 

“Voglio che mi parli!”

 

La voce di mia moglie mi riscosse dallo stato di ipnosi causato da Twitter in cui ero caduto mentre ero seduto al tavolo per la cena. Mi aveva beccato di nuovo, immerso in una qualche conversazione sul mio iPhone. Nella mia mente ero un ospite gradito ad un tavolo di potenze intellettuali ed ascoltavo con entusiasmo la loro ultima discussione, progettando il modo in cui sarei potuto subentrare in quella conversazione molto importante.

 

Per lo meno, questo era ciò che immaginavo. In realtà, non ero un partecipante di una lontana conversazione. Ero un marito, seduto a 60 cm dalla persona che amo di più su questo pianeta e non le stavo prestando nessuna attenzione. Non ricordo cosa stavo guardando sul mio iPhone, ma ricordo distintamente lo sguardo arrabbiato sul volto di Emilia e il tono affettuosamente geloso nella sua voce mentre cercava di riportarmi alla vita reale.

 

Il pericoloso fascino dei social media

Non penso che questi episodi succedano solo a me. La tentazione di permettere ai social media di monopolizzare i nostri primi pensieri della mattina non è propriamente un “errore” dell’era dell’informazione mobile, bensì una sua caratteristica. Realizzare ciò ha portato Alan Jacobs, professore umanitario alla Baylor University, a disconnettersi definitivamente dalla maggior parte dei social media. Lo scorso dicembre Jacobs ha scritto delle misure prese per ritirarsi dalla presa che aveva su di lui la costante connessione online, compreso non seguire più nessuno sul suo profilo Twitter (così da rendere il suo profilo personale semplicemente un posto dove condividere i suoi scritti) e degradando il suo smartphone con uno “stupido, stupido telefono”.

 

All’inizio del mese, Jacobs rifletteva sulla cultura dell’“immediato” dei social media e sulla pressione che mette sugli utenti nell’essere coinvolti attivamente in ogni cosa e nel proporre istantaneamente un’opinione. Lui ha deciso di uscire completamente dal giro:

 

“Ho trascorso all’incirca sette anni a leggere le risposte ai miei tweet e più di un decennio a leggere i commenti ai post sul mio blog. Ho preso in considerazione i costi e i benefici e ho fermamente deciso di non restare più in ostaggio di tutto ciò. Il motivo principale non è che la gente è scorbutica o sciocca – anche se Dio sa che una di queste due descrizioni sono accurate per un grande ed angosciante numero di comunicazioni sui social media. Il motivo è che molte di queste persone sono entusiaste di ogni corrente di dottrina nata sui social media, la loro attenzione viene sommersa dallo tsunami del momento, le loro volontà imprigionate dal bisogno che sentono di rispondere subito a quello a cui stanno rispondendo tutti in quel momento”.

 

Immagino molti di noi leggere le critiche di Jacobs riguardo al vortice dei social media e dire “Amen!”. Non solo le sue descrizioni della pressione di avere costantemente una “voce” sono azzeccate, ma la sua ampia osservazione sembra incontestabile: sentirsi consumati dai social media non è un caso ma il fine verso cui tendono le app, i siti e gli smartphone.

 

Quindi perché, nonostante tutto il soffocamento, continuiamo a tornare indietro? Ho fatto dei “digiuni” occasionali dalle app sul cellulare, solitamente della durata di qualche giorno e, se riesco a fare uno sforzo eroico, resisto per una settimana o due. Ma sia che si tratti di una pausa di 48 ore, che di una purificazione dai social media, inevitabilmente ritorno su Twitter, su Facebook e al mondo dai contenuti infiniti.

 

Questo è il motivo per cui mi trovo d’accordo col recente lavoro di Matthew Malady per il giornale The New Yorker, “The useless agony of Going Offline”. Malady scrive che, dopo aver letto di un uomo morto in una caduta mentre era distratto dal cellulare, ha deciso di provare l’astinenza da ogni dispositivo elettronico per 72 ore.

 

Scrive: “Alla mezzanotte dell’ultimo dell’anno, io e mia moglie ci siamo dati un bacio. Abbiamo usato delle spatole di legno per far rumore contro alcune pentole. L’esperimento quindi è iniziato e io non ho guardato il mio cellulare né il computer per i tre giorni seguenti”.

 

Ma Malady riferisce che, invece di sentirsi libero mentalmente ed emozionalmente, si è sentito fiacco. Senza il portatile o il cellulare, era disconnesso da ciò che più bramava: informazioni. A parole sue: “Penso fossi meno terrorizzato, ma ero anche meno informato e non molto aggiornato su tutto ciò che mi interessa”. Per Malady la perdita della connessione istantanea alla rete non è stato terapeutico, ma soffocante: “Mi sono sentito come se stessi stando fermo invece di muovermi in avanti. E, sebbene rimanere fermi per un po’ può essere piacevole, farlo ha anche i suoi svantaggi. Piuttosto che sentirmi più rilassato, mi sono sentito per lo più insoddisfatto”.

 

Ho avuto l’impressione che Jacobs e Malady abbiano entrambi ragione: i social media e la connessione mobile danno entrambi un fremito cinetico. C’è qualcosa di profondamente soddisfacente nell’essere costantemente distanti solo pochi attimi dallo scritto più recente, dai nuovi commenti o addirittura dalle foto di famiglia più pittoresche o dai video più divertenti su Youtube. Ma l’eccitazione si paga e, mentre i media online crescono (attraverso più contenuti) e comprimono (con minori mezzi), l’opportunità di rimpiazzare le persone in carne ed ossa con i pixel diventa mano a mano più seria. Mandare messaggi e controllare Facebook può illecitamente scimmiottare il desiderio di amicizia datoci da Dio. La cronaca a tutto tondo di Twitter, disponibile 24 ore al giorno, 7 giorni su 7, può convincerci che stiamo imparando molto, quando in realtà non è così. Instagram, poi, ci può derubare delle memorie che potremmo creare nei momenti di tranquillità della nostra vita se non fossimo così insaziabili del senso di approvazione che i nostri post possono generare.

 

Come cristiani, crediamo che ciò che succede nelle nostre menti è fondamentale per ciò che succede nelle nostre anime. E’ per questo che le Scritture ci comandano di essere trasformati attraverso il rinnovamento delle nostre menti, piuttosto che conformarle all’immagine di questo mondo perduto (Rom 12:2). Dal momento che i social media coinvolgono la nostra mente e le nostre emozioni, abbiamo l’obbligo cristiano di valutare se ci facciamo coinvolgere per il nostro bene o a nostro discapito.

 

Per fare ciò, dobbiamo iniziare riconoscendo che i social media e la tecnologia dei cellulari potrebbero non essere moralmente neutrali. Spesso gli evangelici dicono che le cose materiali sono irrilevanti per loro. Diciamo che “è il modo in cui lo usi che conta”. Ma le cose materiali – come gli smartphone – possono avere proprietà morali intrinseche. Come ha scritto Neil Postman riguardo alla televisione nel suo libro “Amusing Ourselves to Death”, “il mezzo è il messaggio”. Non è necessario guardare il porno sul cellulare perché la tecnologia modelli la tua mente e il tuo cuore in modi subdoli e pericolosi.

 

Visto che pensare attentamente e riflettere seriamente sono atteggiamenti cristiani, qualsiasi cosa materiale che ci incoraggia a pensare distrattamente e riflettere in modo superficiale deve essere vista con sospetto. Questo è un punto importante per quelli di voi che, come me, apprezzano l’onnipresente telecronaca culturale di Twitter. La sua natura tende sia verso l’esaltazione di se stessi, tramite i retweet e i like, che verso la superficialità, con contenuti meno ponderati e chiari che taglienti e frivoli.

 

Usare i social media in modo cristiano

Faremmo meglio a prestare attenzione agli avvertimenti di Jacobs che, dopotutto, ha scritto un libro sulla lettura nella nostra “era della distrazione”. La compressione delle informazioni sui social media e la veloce successione dell’immediato minano il tipo di discorso premuroso, misurato e veritiero che deve caratterizzare quelli che dicono “la verità con amore” (Ef 4:15). Il miglior modo per contrastare questo comportamento è esserne a conoscenza, per non cadere nella trappola e pensare che qualsiasi cosa venga premiata sui social media sia la cosa giusta da dire.

 

Dovremmo inoltre tenere la presa lenta su qualsiasi cosa, inclusi i profili sui social media ed i cellulari. Il nostro bisogno di fermare una specifica abitudine è direttamente proporzionale a quanto riluttanti siamo alla sola idea di prenderci una pausa. Se siete così emotivamente dediti ai social media che rispondete con rabbia e frustrazione al solo suggerimento di disconnettervi per un po’, allora dovreste probabilmente interpretare ciò come un’indicazione urgente di quello che dovete fare.

 

Infine, le nostre vite digitali devono essere sempre bilanciate con la vita che abbiamo offline. Può essere difficile, specialmente se tu, come me, hai un lavoro che richiede l’utilizzo dei social media e delle email. Ma il principio è vero anche in un’economia digitale: l’isolamento perpetuo dall’interazione dal vivo con gli altri non solo dà al peccato un appiglio, ma colpisce negativamente la nostra salute mentale e le nostre emozioni. Gli esseri umani hanno bisogno di una dose giornaliera di conversazione e di luce del sole, come ha saggiamente osservato Clyde Kilby. Per coloro i cui mestieri richiedono ore di lavoro online, devono altrettanto inserire periodi in cui stare disconnessi (programmati intenzionalmente).

 

Gestire i piaceri ed i pericoli dei social media richiede saggezza, riflessione e una vita vissuta molto vicino alle risorse della grazia che Dio ha ordinato per la sua chiesa. Sembra sciocco, ma molti di noi sarebbero più simili a Gesù se si seguisse l’esempio di Jacobs.

 

Disconnettersi da internet può essere d’aiuto, lo sarebbe ancora di più connettersi alla verità della Parola di Dio, alla bellezza del mondo di Dio e alla comunità del popolo di Dio. Non riponiamo tutti i nostri tesori intellettuali dove il tempo e le chiacchere distruggono, o dove il nemico irrompe e ruba.

 

 

Traduzione a cura di Melissa Galliani.

 

Foto di Jonas Lee su Unsplash

 

Tematiche: Crescita spirituale, Cultura e Società, Social media, Vita Cristiana

Samuel D. James

Samuel D. James

È un redattore associato nelle acquisizioni alla Crossway Books e direttore di “Letter & Liturgy”.

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