3 motivi per cui evitiamo l’evangelizzazione

 

 

Non è facile avviare conversazioni sul Vangelo in un’epoca secolare. Forse nella vostra vita le interazioni non affrettate sono rare, oppure l’atmosfera relazionale non è favorevole a momenti seri, o ancora cadiamo in percorsi di conversazione che fanno sembrare dolorosamente imbarazzante il pensiero di andare a parlarne.

Ma se le ragioni del nostro silenzio fossero più profonde?

Un modo per affrontare un compito è riflettere su ciò che ci impedisce di farlo. Ecco quindi tre motivi comuni per cui stiamo zitti.

 

1. Ignoriamo il nostro contesto

In un’epoca post-cristiana, non possiamo dare per scontato nessun presupposto di base in coloro che cerchiamo di raggiungere con il Vangelo. Dobbiamo quindi prestare attenzione come ci poniamo e ad ascoltare bene, per avere un approccio quanto più simile al modo in cui il nostro prossimo vede il mondo e lo vive. Altrimenti, parleremo di termini – anche biblici – che saranno semplicemente fraintesi o rifiutati del tutto.

“Dio ti ama” è una grande notizia, ma priva di significato se non si comprende la natura di Dio (o dell’amore).

“Sei un peccatore” è vero, ma non ha senso se non sai cos’è il peccato o se non ti senti in colpa per questo.

“Hai bisogno di un Salvatore” è vero, ma non ha senso se non si capisce da cosa si ha bisogno di essere salvati.

“La Bibbia dice…” è ottimo, a meno che la Bibbia non sia considerata una raccolta antiquata e paternalistica di favole.

Quando si tratta del Vangelo, non abbiamo bisogno di abbellirlo per renderlo più cool. Abbiamo bisogno di scomporlo per renderlo chiaro. Questo è lo scopo di studiare la cultura circostante alla luce della Parola di Dio. Quali sono i valori, le speranze e le paure prevalenti della gente? In che modo la storia del Vangelo soddisfa i loro desideri più profondi e sovverte i loro idoli più cari?

Per essere efficaci nel nostro momento culturale, quindi, dobbiamo eccellere nel porre domande. Se il vostro obiettivo principale nell’evangelizzazione è sentirvi parlare, soprattutto con un gergo biblico altisonante, allora molti scettici se ne andranno  o scapperanno confusi (nella migliore delle ipotesi). Se però il vostro obiettivo è quello di essere efficaci, allora ascoltate per capire, parlate per essere capiti e coinvolgete rispettosamente il vostro prossimo, un altro portatore dell’immagine di Dio, con la migliore notizia che potrà mai sentire.

Altrimenti, non farete altro che aggiungere elettricità statica all’aria.

 

2. Non riusciamo ad amare

Scrivendo ai Tessalonicesi, l’apostolo Paolo disse: “Così affezionati a voi, avremmo desiderato darvi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari.” (1 Tess. 2:8).

Amare i perduti non è semplicemente una virtù spirituale. Ha anche un senso pratico, perché dove non si sente l’amore, è improbabile che il messaggio venga ascoltato. La fiducia è essenziale, e deriva dalla sensazione che ci si preoccupi.

Non riuscire ad amare non solo ostacolerà i vostri sforzi di portare il Vangelo, ma potrebbe anche indurire il cuore di chi vi ascolta nei confronti dei cristiani in generale e rendere più difficile il compito del prossimo credente che testimonierà.

L’amore per i perduti non deve mai limitarsi alla categoria della strategia pratica, anzi è la cartina di tornasole più efficace per capire se si conosce il Dio che si professa. In 1 Corinzi 13, Paolo afferma:

“Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi amore, sarei un rame risonante o uno squillante cembalo.  Se avessi il dono di profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza e avessi tutta la fede in modo da spostare i monti, ma non avessi amore, non sarei nulla. Se distribuissi tutti i miei beni per nutrire i poveri, se dessi il mio corpo a essere arso, e non avessi amore, non mi gioverebbe a niente” (vv. 1-3).

Potreste essere gli evangelisti più coerenti del mondo. Potreste anche vedere le conversioni. Ma se vi manca l’amore sareste come “un rame risonante. . . sareste niente . . . e non guadagnereste nulla”. I rischi e la posta in gioco non potrebbero essere più alti.

Uno dei modi più concreti per amare bene è ascoltare bene. Questo non è solo un buon consiglio per le storie d’amore in crisi; è l’ABC dell’intelligenza emotiva. Essere ascoltati è così vicino all’essere amati che la maggior parte delle persone non sa distinguere. Non c’è da stupirsi che le Scritture ci esortino a essere “veloci ad ascoltare, lenti a parlare” (Giacomo 1:19). Quante volte, però, ci comportiamo al contrario e rischiamo di allontanare le persone dalla voce di Dio perché siamo troppo innamorati della nostra?

Dobbiamo parlare agli altri come se ricordassimo cosa significava essere perduti anche noi. In un’epoca di indignazione, un messaggio controculturale non sarà convincente senza un tono controculturale.

 

3. Ci inchiniamo alla paura

Non è un segreto che uno dei motivi principali per cui ci ritiriamo dalla testimonianza è la paura. Forse è la paura di un’interazione imbarazzante, o la paura di un vero e proprio rifiuto o imbarazzo, o la paura di non essere attrezzati, di non avere una risposta pronta alle obiezioni di uno scettico. L’elenco potrebbe continuare.

Alcune delle nostre paure possono sembrare deboli, ma sono reali. Solo Dio sa quante opportunità evangeliche ho sprecato a causa di una paura che mi ha bloccato.

L’evangelizzazione però non è complicata: se aspettiamo di condividere la nostra fede finché le nostre paure non sono completamente svanite, non la condivideremo mai.

Non aspettate nemmeno lo scenario “perfetto”, che non arriverà mai. Decidete di cogliere e gestire quello che Dio vi ha dato.

Quando arriverà il momento, all’improvviso, sentite come se poteste reindirizzare la conversazione su cose spirituali – potreste sentirvi fisicamente infelici. Buco allo stomaco? È normale. Cuore in fibrillazione? Di nuovo normale. Voce tremolante? Benvenuti nell’evangelizzazione. Queste sensazioni sgradevoli però non sono un segnale per fuggire, per rimandare, per dare un calcio al barattolo con un sospiro rassegnato dicendo “La prossima volta”.

No, questo è il momento di affrontare la paura a testa alta e metterla al suo posto: “Sì, paura, sei reale e potente, ma non sei onnipotente. Non sei il mio re. Non rispondo a te, ma al re Gesù. Mi appoggerò a lui e farò un passo di fede”.

Immaginate, soprattutto se non siete cresciuti in una casa cristiana, se la persona che vi ha parlato per la prima volta del Vangelo fosse stata invece bloccata dalla paura e se avesse concluso: “No, Signore, non io! Non sono ancora preparato, non sono ancora pronto. Inoltre, l’ambiente non è ideale”. Dove potreste trovarvi oggi?

In Luca 12, Gesù esorta i suoi discepoli a non essere in ansia, perché il loro Padre celeste è contemporaneamente grande e buono. Poi pronuncia una delle affermazioni più belle di tutti i Vangeli:

“Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo regno.” (v. 32).

L’avete capito? Pastore. Padre. Re.

Un piccolo versetto, tre enormi verità. Il Dio che incontriamo nelle pagine delle Scritture, e solo quel Dio, è il Pastore che ci cerca, il Padre che ci adotta e il Re che ci ama.

E 2.000 anni fa, nel Signore Gesù Cristo, il Re Pastore è diventato l’Agnello ucciso. Per quanto sia confortante sentire “l’Eterno è il mio pastore” (Sal. 23:1), c’è una promessa ancora migliore: l’Agnello è il mio pastore (Ap. 7:17). E prima di ascendere alla gloria, ci ha lasciato questa indomabile certezza: “io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell’età presente”. (Matteo 28:20).

 

Potreste avere paura nell’evangelizzazione, ma non sarete mai soli.

 

Traduzione a cura di  Lisa Artioli

 

Tematiche: Evangelizzazione

Matt Smethurst 

Matt Smethurst 

 

Pastore della River City Baptist Church di Richmond, Virginia, scrive per The Gospel Coalition ed è autore di Diaconi: Come servono e rafforzano la Chiesa (2021, ed. Coram Deo), Le giuste attitudini del cuore per avvicinarsi alla Bibbia (2019) e 1–2 Thessalonians: A 12-Week Study (1-2 Tessalonicesi uno studio di 12 settimane N.d.T)(2017). Lui e sua moglie, Maghan, hanno tre figli.

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